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Vico Palanca

VICO PALANCA

Questo vicolo faceva parte del primo nucleo abitativo del Borgo composto da soli vicoli che avevano un tunnel a forma di arco.

         In questo vicolo, verso la fine dell’800 abitava una famiglia benestante la cui figlia era fidanzata con un bravo e giovane contadino, mezzadro della famiglia Sorricchio di Atri.

Questa coppia di innamorati fu la protagonista di una storia che oggi sarebbe incredibile. Si narra di antiche usanze che trovavano legittimazione nel vecchio diritto longobardo (sec. VII) sotto il cui regno il nostro paese era stato, alle dirette dipendenze del Ducato di Spoleto, unitamente ad Atri.

I due giovani, dopo un periodo di fidanzamento, decisero finalmente di sposarsi. Prima, però, erano entrambi obbligati a rispettare alcuneformalità.

Innanzitutto, dovevano predisporre, in forma scritta, unelencazione di tutti i beni dati in dote. Ciò per la sicurezza della dote, del dotante, della sposa e dei figli.

Fino alla prima metà del secolo scorso la dote era un bagaglio indispensabile ed obbligatorio per la sposa e non possederla rendeva difficile per le ragazze trovare marito. Dopo le nozze, però, la dote non diventava di proprietà dello sposo perché egli doveva soltanto gestirla e alla sua morte era tenuto a restituirla alla moglie che da quel momento era libera di disporne a suo piacimento. Se invece moriva prima la moglie, senza aver messo al mondo dei figli, il marito era tenuto a restituire la dote alla famiglia della sposa. Il marito, come contropartita alla dote, era tenuto al mantenimento della moglie e a garantirle il necessario per soddisfare i propri bisogni primari.

Nella tradizione abruzzese, la dote veniva definita soma. Da qui il famoso detto portare la soma.

Il rito della consegna della dote precedeva la celebrazione delle nozze e avveniva con modalità diverse che venivano concordate da entrambi le famiglie.

Un rito prevedeva che la famiglia della sposa provvedesse a consegnare la dote direttamente presso la casa dello sposo. Normalmente la soma era costituita da indumenti, biancheria intima, biancheria per la casa, ecc. Il tutto rigorosamente elencato in un inventario firmato dal padre della sposa e redatto in duplice copia. Una copia veniva consegnata allo sposo e l’altra copia veniva trattenuta dal padre della sposa dopo essere stata controfirmata dal promesso sposo. Quest’ultimo con la sua firma dichiarava che la soma consegnata corrispondeva esattamente a quella elencata nell’inventario.

Fatta questa operazione il baule contenente la dote veniva messo a disposizione dello sposo che doveva sobbarcarsi anche l’onere di portarlo dentro la propria casa.

La cassa doveva essere trasportata obbligatoriamente con un carro trainato da una coppia di buoi debitamente addobbati con nastri colorati e con fiocchi e drappi rossi. Il conducente del carro doveva indossare il vestito della festa con giacca, cravatta e fazzoletto rosso attorno al collo. Questo rito veniva praticato dai contadini ma, fino a una certa epoca, anche da coloro che abitavano in paese perché l’usanza valeva per tutti.

Se la sposa avesse avuto un fratellino o una sorellina questi dovevano sedere sopra il baule e restarvi fino a quando lo sposo non gli consegnasse un regalo. Ciò era un semplice atto simbolico, una sorta di contropartita per il distacco della sorella promessa sposa che lasciava la propria casa per andare a vivere altrove.

Vi era poi un altro rito che veniva eseguito quando la famiglia della sposa apparteneva ad un rango sociale superiore a quello dello sposo. In questo caso le parti si invertivano: restava l’obbligo per la famiglia della sposa di portare la soma, ma il padre della fidanzata, avvalendosi del suo prestigio personale o del suo ceto sociale, aveva la facoltà di non consegnare la propria figlia allo sposo se questi non gli avesse offerto qualcosa di suo gradimento.

Questa usanza era talmente rispettata che aveva forza di legge.

È questo il caso della nostra coppia di fidanzati. Lo sposo aveva offerto al futuro suocero vari regali ma era disperato perché se li era visti tutti rifiutati. E non sapendo più cosa offrire, quasi per scherzo, offrì al futuro suocero un vitello in cambio della figlia. Era evidente che si trattasse di uno scherzo soprattutto perché il vitello non era suo ma del proprietario dei terreni presso cui lui lavorava come mezzadro.

Il padre della sposa, che non vedeva di buon occhio l’unione, prese la palla al balzo e non esitò ad accettare l’offerta. Allora il giovane sposo resosi conto delle reali intenzioni del padre della sua fidanzata e non avendo altro da offrirgli lo pregò di accettare uno dei regali già propostigli. Ma il rifiuto del padre della fidanzata fu netto perché egli non voleva perdere l’occasione tanto attesa che gli permetteva di negargli legittimamente la figlia. Scoppiò una forte lite tra le famiglie che pervennero alle vie di fatto. Per cui il matrimonio andò a monte, il giovane espatriò in Argentina e la sposa andò a farsi suora.

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